Scuola, nota Miur 4799 su Pon per la scuola e possibilità di formazione a distanza per emergenza Covid-19

16 Aprile 2020

Il Ministero dell’Istruzione (Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e di formazione -Direzione generale per i fondi strutturali per l’istruzione, l’edilizia scolastica e la scuola digitale) ha provveduto ad emettere la Nota N. 4799 del 14 aprile inerente al PON (Programma Operativo Nazionale “Per la scuola, competenze e ambienti per l’apprendimento” 2014-2020) e avente come oggetto ‘Possibilità di formazione a distanza durante lo stato di emergenza epidemiologica da COVID-19′.

La nota, come riferisce un comunicato diffuso da Flc-Cgil, è stata adottata dopo aver consultato i servizi della Commissione europea e le autorità nazionali preposte al controllo e al coordinamento dei Fondi strutturali e di investimento Europeo.

Premesso che le attività finanziate dal PON “Per la Scuola” 2014-2020 e dal relativo programma complementare (POC), riguardano l’ampliamento dell’offerta formativa, l’Autorità di Gestione segnala che le scuole possono svolgere le azioni del PON in modalità on line e mediante formazione a distanza purché siano rispettate le seguenti condizioni poste dagli Uffici della Commissione europea:

  • le attività formative inizialmente previste in presenza, devono essere relative alla tipologia di Unità di Costo Standard (UCS) “Formazione per adulti” e “Formazione d’aula” (l’indicazione si trova, generalmente, nella nota di ammissione a finanziamento)
  • la piattaforma informativa scelta deve consentire:
  1. l’interazione sincrona tra docenti, tutor e allievi
  2. di tracciare i soggetti collegati e la durata della connessione stabilita
  3. la predisposizione di un’utenza “guest” per eventuali verifiche in itinere, anche a campione, previste nell’ambito del sistema di gestione e controllo del PON “Per la Scuola”

Fonte: Scuolainforma

Perse le mail dei medici di base. Centinaia di casi sospetti di coronavirus svaniti

15 Aprile 2020

La casella di posta era piena, commissariato il Sisp.

La Regione chiede conto a tutte le Asl

Fonte: La Stampa

In Italia crescono i cyber-reati contro la persona e le truffe finanziarie

10 Aprile 2020

Lo rilevano i dati contenuti nel bilancio reso noto in occasione del 168esimo Anniversario della Fondazione della Polizia di Stato: nel 2019 sono stati oltre 9 mila i delitti informatici denunciati, con 468 persone sottoposte al vaglio delle Autorità

Nel 2019 ci sono stati 1.181 attacchi di hacker ai sistemi informatici di aziende e enti che rappresentano degli interessi strategici nazionali mentre 91 sono i siti e le pagine che sono state rimossi per cyberterrorismo. Complessivamente sono stati oltre 9 mila i delitti informatici denunciati, con 468 persone sottoposte al vaglio delle Autorità. Tra loro anche i minori: per 136 di loro è infatti scattata la denuncia per atti di cyberbullismo. Il Centro Nazionale per il Contrasto della pedopornografia on line (Cncpo) ha coordinato 514 attività d’indagine che hanno condotto a 37 arresti e 626 denunce. Sono stati analizzati 47.267 siti internet con l’inserimento di 2.295 spazi web illeciti nella black list per inibirne l’accesso dal territorio italiano. Si tratta solo dei principali tra i dati contenuti nel bilancio reso noto in occasione del 168esimo Anniversario della Fondazione della Polizia di Stato.

In evidenza i reati contro la persona

Particolarmente significativi, come riportato da Adnkronos e Ansa, sono i dati relativi ai fenomeni di adescamento on line, con 126 casi trattati, 189 indagati di cui sei arrestati. Nell’ambito del contrasto dei reati contro la persona perpetrati sul Web, sono state indagate 1.129 persone, di cui sei arrestati, e 361 per aver commesso estorsioni a sfondo sessuale, stalking, molestie, minacce e ingiurie. Risultano in costante aumento le diffamazioni on line, soprattutto ai danni di persone che ricoprono incarichi istituzionali o comunque conosciute dal grande pubblico: 2.502 i casi trattati e 770 le persone indagate. Particolare rilevanza ha assunto l’attività di contrasto al revenge porn, fenomeno in continua crescita, per il quale sono 24 gli indagati.

Purtroppo, sottolinea la Polizia postale, i dati non rispecchiano la gravità e l’estensione del fenomeno, a causa della ritrosia delle vittime a denunciare. Grande impegno è stato dedicato al contrasto dei reati d’incitamento all’odio: oltre duemila gli spazi virtuali monitorati per condotte discriminatorie di genere, antisemite, xenofobe di estrema destra. Si registra la continua crescita delle truffe on line: sono state ricevute e trattate oltre 196 mila segnalazioni che hanno consentito di indagare 3.730 persone. Sempre più sofisticate sono state le condotte fraudolente com-messe sulle piattaforme di e-commerce. Sono aumentate le cosiddette truffe romantiche, che vedono come vittime donne di età compresa tra i 40 e i 60 anni, circuite da uomini conosciuti in Rete e indotte con stratagemmi sentimentali a versare ingenti somme di denaro a truffatori senza scrupoli.

Continuano a crescere le truffe legate al trading online

Si è evidenziato inoltre un significativo aumento del fenomeno delle truffe legate al trading on line. Molti utenti della Rete, allettati dalla prospettiva di facili guadagni derivanti da investimenti ”sicuri”, sono caduti nella rete di abili truffatori e finti intermediari finanziari investendo centinaia di migliaia di euro. Con riferimento al financial cybercrime le statistiche fanno registrare 6.854 casi nazionali. La Polizia postale nonostante la difficoltà operativa di bloccare e recuperare le somme frodate, soprattutto verso Paesi extraeuropei (Cina, Taiwan, Hong Kong), grazie alla versatilità della piattaforma Of2Cen (On line fraud cyber centre and ex-pert network) per l’analisi e il contrasto avanzato delle frodi del settore, ha potuto bloccare e recuperare alla fonte circa 18 milioni di euro, su una movimentazione di 21.333.990 euro. Sono in corso attività di cooperazione internazionale finalizzate al recupero delle restanti somme. Inoltre, a seguito dell’adesione a campagne internazionali ad alto impatto come ”Emma 5” (European Money Mule Action), coordinata dal Servizio Polizia postale con la collaborazione di 24 paesi europei e di Europol, sono state identificate, in qualità di money mules e promotori dell’attività criminale 170 persone in Europa, per 43 denunciati di cui 30 arrestati nel territorio nazionale. Le transazioni fraudolente sono state 374, per un totale di circa 10 milioni di euro, di cui circa 3.5 bloccati e/o recuperati grazie alla piattaforma Of2Cen per la condivisione delle informazioni. In materia di cyberterrorismo sono state denunciate sei persone, di cui un arrestato e visionati 36.377 spazi web per individuare contenuti di propaganda islamica, di cui 91 rimossi.

Fonte: Corriere Comunicazioni

Lettera aperta alle istituzioni: la risposta del Presidente Soro

Non si è fatta attendere la risposta del Presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro, alla lettera aperta inviata dai giuristi Andrea Lisi e Enrico Pelino lo scorso 25 marzo.

Il documento, sottoscritto da diverse Associazioni ed esperti del settore, è stato inviato, oltre al Garante privacy, al Presidente del Consiglio Conte, ai ministri Pisano, Patuanelli e Manfredi, al Commissario Domenico Arcuri e a Invitalia.

Con questa nota, è stato chiesto alle istituzioni coinvolte varie considerazioni in tema di protezione dei dati personali e trasparenza alla luce della possibilità di adottare in Italia un sistema di tracciamento informatico dei cittadini sul modello Sudcoreano, sul quale si percepisce un significativo rischio di derive e utilizzi gratuiti.

Qui di seguito la risposta integrale del Presidente Antonello Soro, che ringraziamo per l’attenzione e la cortesia.

 

Gentili Avvocati,

la Vostra nota del 25 marzo mi induce a formulare alcune considerazioni, che spero possano risultare utili al dibattito, di questi giorni, sul rapporto tra protezione dati e misure di contenimento dei contagi da covid-19.

Molte delle osservazioni contenute nella nota sono da me condivise (e, peraltro, più volte affermate in queste settimane e in dichiarazioni rese alla stampa o agli organi parlamentari, come nel caso dell’audizione tenuta l’8 aprile dinanzi alla IX Commissione della Camera dei deputati). Ma la rilevanza del tema e la mia intima convinzione dell’utilità, in ogni circostanza, del dialogo mi inducono comunque, a sottolineare alcuni aspetti di merito.

Premetto che in assenza di misure ancora, allo stato, concretamente adottate, stiamo da circa un mese ragionando su ipotesi, variate peraltro sensibilmente nel corso delle settimane. La soluzione su cui, negli ultimi giorni, il Governo pare stia convergendo (ovvero quella di un’app volontariamente attivabile, che raccolga dati bluetooth pseudonimizzati) è sensibilmente diversa dalle misure ipotizzate meno di un mese fa e sulle quali ho avuto modo di esprimere, in più di un’occasione, perplessità e rilievi. Sin dall’inizio, ho potuto chiarire che qualsiasi soluzione adottata a fini di prevenzione epidemiologica non possa che rispettare rigorosamente i criteri di necessità, adeguatezza, proporzionalità e temporaneità prescritti dall’ordinamento interno e da quello europeo per la legittimità di tali misure.

In questo senso, dunque, rispetto al Vostro monito a non “dar carta bianca” a qualsiasi soluzione di tracciamento, credo Vi si possa rassicurare rilevando come tale atteggiamento sia assolutamente estraneo al Garante ma anche, ritengo, allo stesso Governo, cui non mi sentirei di imputare un’azione sprovveduta o, peggio, sprezzante del diritto alla protezione dati.  

In ordine alla distinzione, anche da Voi tracciata, tra finalità repressiva e finalità solidaristica della misura, richiamo le considerazioni svolte nella citata audizione, circa la natura relazionale del giudizio di proporzionalità, per questo inevitabilmente condizionato dal grado di meritevolezza e utilità sociale dello scopo sotteso al trattamento. Nell’audizione, peraltro, ho avuto modo di apprezzare il fine sotteso a sistemi di data tracing volti non già a sanzionare la violazione degli obblighi di permanenza domiciliare, ma a ricostruire la catena dei contagi per sottoporre ad accertamenti i potenziali positivi. Si perseguirebbe infatti, in tal modo, quella componente solidaristica del diritto alla salute quale interesse collettivo – valorizzata dalla giurisprudenza costituzionale sugli obblighi vaccinali -e che Aldo Moro, in Assemblea Costituente, ben sottolineò non potersi disgiungere dal rispetto della dignità umana.

Quanto alla paventata pervasività della misura, la soluzione ultimamente ipotizzata non contempla affatto la generalizzata mappatura degli spostamenti, ma la sola acquisizione dei dati (pseudonimizzati) sulle interazioni più strette, ricavabili tramite la funzionalità bluetooth che volontariamente si scelga di attivare sul proprio dispositivo. Per altro verso ho sempre chiarito, in ogni circostanza (da ultimo, in audizione) come la soluzione tecnologica non possa in alcun modo disgiungersi da una risposta sanitaria adeguata. Sono assolutamente convinto che il tracciamento dei dati non avrebbe alcuna utilità in assenza di risorse umane (e persino di reagenti!) per accertarne l’effettiva positività dei cittadini venuti a contatto con persone infette.

Ho anche rilevato come tali misure (la cui efficacia si stima dipenda dall’adesione di circa il 60% della popolazione, non necessariamente dalla totalità) siano tanto più utili in un contesto di graduale ripresa delle attività e di mitigazione degli obblighi di permanenza domiciliare. Ma ciò non toglie- va chiarito – che anche nell’attuale regime di lock-down un data tracing così concepito possa rendersi assai utile per contenere i contagi, sempre purtroppo possibili anche nell’ambito di quelle limitate attività oggi consentite, in ragione della particolare capacità virale del coronavirus. Nessuno, infatti, può garantire che nel fare la fila in farmacia possano esservi soggetti inconsapevolmente positivi capaci di trasmettere il virus per via aerosolica o per contatto.

Ancora. Non pare prospettato, allo stato, alcun tipo di utilizzo di questi dati per segnalare assembramenti o zone particolarmente affollate: obiettivo per il quale sono sufficienti i dati anonimi e aggregati acquisibili dai più vari gestori, sulla scorta peraltro di quanto indicato dalla Commissione Ue nella raccomandazione dell’8 aprile.  

Tutt’altro che a un presunto “monitoraggio gratuito”, la misura prospettata pare pertanto preordinata all’individuazione dei possibili contagiati in fase, peraltro, precoce: obiettivo, questo, indispensabile per il contenimento dell’epidemia e, quindi, per la tutela del diritto alla salute ma anche – visto l’alto tasso di letalità del virus- persino alla vita, come hanno sottolineato giuristi dell’autorevolezza di Giorgio Lattanzi.

Non si tratta, dunque, di indulgere ad alcun “monitoraggio di Stato”, ma di non omettere di adottare ogni cautela idonea a limitare il numero di contagi (e quindi di morti), con modalità assolutamente rispettose della riservatezza individuale.

Quanto ai lavori della Commissione istituita dalla Ministra dell’innovazione, rilevo che, allo stato, l’impatto della misura in discussione sui diritti non appare onestamente trascurato.

Circa la trasparenza della composizione (di cui il Garante certo non risponde), posso dire, per quanto ci riguarda, che l’Autorità vi partecipa nella persona del Segretario generale, da me designato quale rappresentante, in una posizione affatto distinta da quella degli esperti di nomina ministeriale, al fine di esprimere, già in quella sede preliminare, le esigenze di tutela del bene giuridico affidato alla cura dell’Autorità.  

Ringraziandovi per la consueta attenzione, spero di aver chiarito alcuni aspetti, di indubbia complessità e in costante evoluzione, dei temi rilevantissimi da Voi rappresentati, colgo l’occasione per porgere cordiali saluti.

Antonello Soro

Roma 9.04.2020

Fonte: Anorc

DA ASSOSOFTWARE UN APPELLO ALLA RESPONSABILITÀ DI IMPRESE E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE #CHIPUOPAGHI

#ChiPuoPaghi

E’ questo l’hashtag che vogliamo lanciare per sensibilizzare le imprese italiane che, anche nell’emergenza Covid-19, sono in grado di far fronte ai propri impegni verso dipendenti e fornitori.In rappresentanza di centinaia di aziende produttrici di software gestionali ci siamo sentiti chiamati in causa dalla eccezionalità di questo momento che, mentre ci richiede uno sforzo straordinario per continuare a garantire il funzionamento dei processi vitali delle imprese e delle filiere impegnate sul fronte dell’emergenza, ci sollecita a una presa di coscienza e responsabilità nei confronti di quanti oggi stanno affrontando una reale difficoltà con una prospettiva futura ancor più critica.

Per questo chiediamo che #ChiPuoPaghi, senza indugio.

Servirà sicuramente un nuovo “Piano Marshall” per tutti coloro che ne hanno bisogno: sarà indispensabile per evitare un tracollo ora e al termine dell’emergenza. Tuttavia, da subito, riteniamo che occorra una assunzione di responsabilità almeno da parte di tutti coloro che, in questa situazione critica, avendone i mezzi, possono dare un contributo importante all’economia reale per evitare l’aggravamento della crisi.
Chi può, paghi! Chiediamo che lo facciano ora gli imprenditori nei confronti di dipendenti, fornitori e intermediari, che lo faccia subito la Pubblica Amministrazione nei confronti dei propri fornitori tenendo fede ai termini contrattuali.
Come affermiamo nella lettera aperta (allegata e riportata in calce), non dobbiamo aspettare che siano “gli altri” a farlo.
Serve un’ulteriore prova di coscienza, di sensibilità, di rispetto e collaborazione, di serietà e professionalità.Coloro che intendono accogliere il nostro appello, se condiviso, potranno esternderlo ai loro Clienti e Fornitori nella speranza che sia raccolto e che siano in molti, anche in questo frangente così difficile, a dare un segnale positivo alle imprese e alle persone, al nostro Paese, prima ancora della fine dell’emergenza sanitaria.

 

Di seguito il testo della lettera aperta:

La diffusione del Covid-19 sta mettendo a dura prova i modelli organizzativi, le priorità e l’intero sistema economico del nostro Paese. Le misure fin qui intraprese non rappresentano che una minima parte di quanto sarebbe necessario fare per dare garanzie e sostegno a chi oggi si trova in serie difficoltà economiche e non esclude, con il perdurare della crisi, di dover chiudere i battenti!

Il primo fine mese di questa crisi è arrivato e con il fine mese, immancabilmente, moltissime aziende, in crisi di liquidità, decideranno di ritardare o congelare, per evidente necessità o per libera scelta, i pagamenti ai fornitori e persino ai dipendenti, generando un effetto a cascata di contrazione della liquidità in tutto il sistema economico. In questo momento è importante che le aziende che non vivono particolari difficoltà economiche e finanziarie utilizzino la liquidità esistente per evitare che il sistema economico arrivi al collasso.

Le aziende associate ad AssoSoftware sono impegnate in questa delicatissima fase a mantenere efficienti e protetti i sistemi di comunicazioni telematiche degli ospedali, della P.A., delle filiere produttive e dei servizi pubblici essenziali, degli apparati finanziari e della gestione della fiscalità dello Stato, con il pensiero rivolto al futuro di tutti, ai dipendenti delle aziende, ai fornitori e alla stabilità. Per questo sostengono l’importanza di compiere un gesto di normalità.

CHI PUÒ PAGHI.

È un dovere civico. Pagare i fornitori perché a loro volta possano pagare i loro dipendenti e i loro fornitori. Pagare le tasse: chi può lo faccia. Pagare i professionisti, anche loro hanno dipendenti. Se possibile rispettiamo le scadenze anche se prorogate. È un impegno che deve essere assolto, senza indugio, anche dalla P.A. centrale e periferica, chiamata anch’essa, soprattutto in questo momento, a saldare, nei tempi e nelle scadenze previsti dalle norme e dai contratti, i suoi fornitori.

Chi ha realmente bisogno deve usufruire degli aiuti, ma aiutiamo il circuito dell’economia reale a ritrovare spinta e velocità. Perché di questo abbiamo tutti bisogno e perché farlo conviene a tutti,proprio a cominciare da chi può rispettare i propri obblighi e i pagamenti. Gli imprenditori, gli artigiani, i professionisti, hanno un ruolo sociale importante, più della politica e più dei corpi intermedi della società, e questa crisi lo ha reso evidente. Ciascuno ora può e deve dimostrarsi all’altezza del proprio ruolo.

Non dobbiamo aspettare che siano “gli altri” a farlo. Non cerchiamo alibi. Non offriamo alibi. Diamo un’ulteriore prova di coscienza, di sensibilità, di rispetto e collaborazione, di serietà e professionalità.

CHI PUÒ PAGHI.

È il segnale di cui le imprese e le persone hanno bisogno, prima ancora della fine dell’emergenza sanitaria.

Manteniamo gli impegni. Stiamo con l’Italia!

#chipuòpaghi
Bonfiglio Mariotti – Presidente AssoSoftware

 

Fonte: AssoSoftware

Le app di monitoraggio Covid-19 non sono poi così sicure

Le applicazioni Android, lanciate per i cittadini dei Paesi più colpiti dalla pandemia come Iran, Colombia, ma anche la stessa Italia hanno avuto la sfortunata conseguenza di diventare possibili vettori inconsapevoli di cyber attacchi. Con la diffusione del virus, infatti, abbiamo visto il fiorire di un’ondata di applicazioni per cellulari Android a tema Covid-19 che hanno lo scopo di aiutare i cittadini a rintracciare i sintomi e tenere traccia delle infezioni da virus. Tuttavia, in alcuni casi, queste app hanno anche messo a rischio privacy e sicurezza dei cittadini.

Da una recente analisi, infatti, sono emerse varie preoccupazioni su queste tematiche, tra cui una backdoor in varie applicazioni. Secondo un post pubblicato recentemente da un gruppo di ricercatori, le app ricadono in due categorie: o sono state create e approvate dai paesi o studiate come un’invenzione una tantum dai criminal hacker per sfruttare l’attuale pandemia. I ricercatori hanno analizzato decine di app a tema Covid-19 che continuano ad emergere con la diffusione del coronavirus, aprendo la strada alle relative minacce alla sicurezza in tutto il mondo. Nell’analisi, hanno evidenziato tre che rappresentano una particolare minaccia per i cittadini, citando non solo la potenziale attività cybercriminale che potrebbe scaturire da queste, ma anche semplici errori degli sviluppatori.

Il caso iraniano

All’inizio di marzo in Iran, uno dei primi posti in cui Covid-19 è emerso come una seria minaccia per la salute, il governo ha rilasciato un’app ufficiale, disponibile su un app store iraniano conosciuto come CafeBazaar. L’app aveva lo scopo principale di rintracciare i cittadini, e ha suscitato non poche preoccupazioni sulla privacy perché, piuttosto che fornire informazioni vitali per la salute, sembrava avere l’unico scopo di raccogliere informazioni personali degli utenti. Se l’app in sé non era abbastanza preoccupante, i criminal hacker hanno anche creato un’app clone, chiamata CoronaApp, disponibile online per il download diretto da parte dei cittadini iraniani piuttosto che tramite il Google Play Store, e quindi non soggetta al normale processo di verifica che potrebbe proteggerli da intenzioni nefaste. Questo faceva leva anche sulla situazione politica del Paese, considerando che molti cittadini iraniani non possono accedere allo store ufficiale di Google Play, e sono quindi più propensi a scaricare app da altre fonti. Anche se CoronaApp non mostra ovviamente intenzioni malvagie, richiede il permesso di accedere alla posizione di un utente, alla fotocamera, ai dati di internet e alle informazioni di sistema, e di scrivere su uno storage esterno. Si tratta di una particolare raccolta di permessi che dimostra il probabile intento dello sviluppatore di accedere alle informazioni sensibili dell’utente. Inoltre, i creatori sostengono che l’app è stata costruita con il supporto del governo iraniano, anche se nulla conferma questa affermazione.

Buone intenzioni, pessima realizzazione

In Colombia, un altro Paese che ha imposto restrizioni ai cittadini durante la pandemia, il mese scorso il governo ha pubblicato su Google Play un’app per cellulari chiamata CoronApp-Colombia per aiutare le persone a monitorare i potenziali sintomi di Covid-19. Tuttavia, l’app includeva anche delle vulnerabilità nelle modalità di comunicazione via HTTP, che influiscono sulla privacy di oltre 100.000 utenti. Dal momento che effettua chiamate al server non sicure per trasmettere i dati personali degli utenti, CoronApp-Columbia potrebbe mettere a rischio la salute degli utenti e le informazioni personali sensibili a rischio di essere compromesse.

La situazione in Italia

Nel nostro Paese, il Governo ha creato applicazioni specifiche per ogni regione per il monitoraggio dei sintomi del coronavirus. Questa frammentazione ha però permesso ai criminal hacker di approfittare dell’incoerenza dei rilasci e della disponibilità delle app per lanciare copie maligne che contengono vaire backdoor. Naturalmente, un numero maggiore di applicazioni approvate dal governo fa sì che gli utenti siano meno sicuri di quali applicazioni mobile a tema Covid-19 siano legittime.

I criminal hacker, hanno approfittato di questa confusione, e hanno rilasciato applicazioni clone dannose per attaccare gli utenti che possono aver erroneamente scaricato l’app sbagliata. In tutto i ricercatori hanno trovato 12 pacchetti di applicazioni Android che facevano capo alla stessa campagna di Criminal Hacking. Tutti, tranne uno, hanno usato vari metodi di offuscamento per non farsi scoprire. Il sospetto era stato subito confermato dando uno sguardo al certificato di firma digitale della prima applicazione dannosa che hanno analizzato. Questo perché, anche se il servizio era a beneficio dei cittadini italiani, il firmatario della app era “Raven” con una posizione a Baltimora, probabilmente un riferimento alla squadra di Football americano Baltimore Ravens. La backdoor si attiva quando l’app Android riceve un segnale BOOT_COMPLETED, quando il telefono si avvia, o quando l’app viene aperta.

Il consiglio, per evitare una vera e propria diffusione a macchia d’olio di queste problematiche di sicurezza è di insistere sull’unicità e tenuta delle app rilasciate. Non deve essere neppure sottovalutata la due diligence durante il processo di sviluppo per garantire la sicurezza di qualsiasi applicazione mobile sponsorizzata dal governo ed evitare di mettere i cittadini a ulteriore rischio.

Fonte: Il Foglio

Informazione e Covid-19: il ruolo del giornalismo digitale e dei social network

9 Aprile 2020

Sulle testate online e sui social network stanno circolando troppi dettagli sui malati di coronavirus. Il monito del Garante privacy ci ricorda quant’è importante la sfida della corretta informazione tra il rispetto della privacy e il diritto di cronaca e tra il diritto di cronaca e il dovere e/o la necessità di informare

Cosa si intende per essenzialità dell’informazione giornalistica e come trovare il giusto equilibrio in un contesto di guerra al virus Covid-19? Sul punto il Garante privacy il 31 marzo 2020 ha espresso un importante monito ai media: troppi dettagli sui malati. Tale monito riguarda in larga parte anche le testate online e i social. Difatti oramai l’informazione si esprime per larga parte anche nell’universo digitale ed è soprattutto lì che deve essere combattuta la sfida della corretta informazione tra il rispetto della privacy e il diritto di cronaca; nonché tra il diritto di cronaca e il dovere e/o la necessità di informare e perfino di educare la cittadinanza alle primarie regole igieniche e di distacco sociale.

Sul diritto alla informazione e sulla necessità di essenzialità

Come anticipato, con la raccomandazione pubblicata il 31 marzo, il Garante per la protezione dei dati personali ha ritenuto necessario richiamare l’attenzione di tutti gli organi di stampa, anche on line nonché dei social network, a non eccedere nella diffusione di dati personali eccessivi (nome, cognome, indirizzo di casa, dettagli clinici) riguardanti persone risultate positive al Covid-19.

L’Autorità ha ritenuto doveroso richiamare l’attenzione di tutti gli operatori dell’informazione al rispetto del requisito dell’“essenzialità” delle notizie che vengono fornite, astenendosi dal riportare i dati personali dei malati che non rivestono ruoli pubblici, per questi ultimi “nella misura in cui la conoscenza della positività assuma rilievo in ragione del ruolo svolto”.

Difatti anche per i personaggi pubblici, la sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica. Pertanto, si deve evitare di diffondere informazioni sulla vita privata e familiare, a meno che siano direttamente connesse alla condotta tenuta dal politico o dal rappresentante istituzionale in questione.

Ma cosa si intende per “essenzialità delle informazioni” nel giornalismo? Ciò che va trovato è il giusto equilibrio tra diritto di cronaca ed i fatti di interesse pubblico. A tale riguardo possiamo fare riferimento a quelli che sono stati ritenuti i tre principi-cardine di un corretto esercizio del diritto di cronaca:

  • verità (anche solo putativa),
  • continenza della forma espositiva,
  • pertinenza o interesse sociale alla notizia.

Dall’insieme di questi tre elementi si ricava un concetto di essenzialità dell’informazione, al quale il giornalista deve attenersi, sia con riferimento ai contenuti sia con riferimento allo stile di esposizione dei fatti.

Con essenzialità si intende che la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata, quando l’informazione anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti. L’essenzialità della informazione viene violata “quando il giornalista divulga dati sovrabbondanti rispetto al fatto di cronaca in sé. Inoltre, andrà rispettato anche il dovere di trattare i dati personali in modo corretto, a partire dall’obbligo di verifica della loro esattezza, e conseguentemente l’obbligo del giornalista di correggere senza ritardo errori e inesattezze. Tali principi costituiscono l’essenza di una corretta e professionale attività giornalistica.

Rappresenta l’Autorità che “anche in una situazione di emergenza quale quella attuale, in cui l’informazione mostra tutte le sue caratteristiche di servizio indispensabile per la collettività, non possono essere disattese alcune garanzie a tutela della riservatezza e della dignità delle persone colpite dalla malattia contenute nella normativa vigente e nelle “Regole deontologiche relative al trattamento di dati personali nell’esercizio della attività giornalistica”. Va ricordato che le “Regole deontologiche, pubblicate il 4 gennaio 2019 ed inserite nell’allegato A.1 del Codice privacy, costituiscono una norma dell’ordinamento giuridico generale, e ad essa devono adeguarsi tutti coloro che esercitino funzioni informative mediante mezzi di comunicazione di massa. Ed è (all’art. 6) delle predette Regole che viene scolpito il principio della essenzialità della informazione.

Si rende necessario precisare che sebbene l’Autorità punti contestualmente il dito sui social network e sugli organi di stampa, anche on line, le Regole si applicano ai giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti e a chiunque altro, anche occasionalmente, eserciti attività pubblicistica (art. 13 Regole). Il rispetto delle disposizioni contenute nelle Regole costituisce condizione essenziale per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali e, “in caso di violazione delle sue prescrizioni, il Garante può vietare il trattamento ovvero disporre il blocco o imporre sanzioni”. Inoltre, sempre in caso di violazione delle Regole, l’Ordine dei giornalisti può avviare, procedimenti disciplinari nei confronti degli iscritti.

Il rispetto dell’essenzialità della informazione nei social network

Il Garante nella raccomandazione di cui in narrativa, precisa che tali cautele – “che non pregiudicano comunque un’informazione efficace sullo stato dell’epidemia o eventuali comunicazioni che le autorità sanitarie e la protezione civile ritengano necessario fare sulla base della normativa emergenziale vigente − operano a prescindere dalla circostanza che i dati siano resi disponibili da enti o altri soggetti detentori dei dati medesimi ed inoltre salvaguardano le tante persone risultate positive al virus, e poi guarite, da una “stigmatizzazione” permanente, resa possibile dalla diffusione delle notizie sulla rete.

Continua l’autorità esplicitando che “l’obbligo di rispettare la dignità e la riservatezza dei malati vige anche per gli utenti dei social, a cominciare da alcuni amministratori locali, che spesso diffondono dati personali di persone decedute o contagiate senza valutarne interamente le conseguenze per gli interessati e per i loro famigliari.

La linea di confine, dunque, tra ciò che può essere considerato quale “essenziale e di pubblico interesse” e ciò che invece risulta “superfluo” è molto labile, spesso a discapito di soggetti deboli quali nel caso di specie, soggetti affetti dal Corona virus può travolgere tra l’altro le loro attività imprenditoriali e professionali, nonché la vita dei loro familiari, troppo spesso in rete senza che alcuna valutazione preliminare sia compiuta sul contenuto della notizia.

Al riguardo dobbiamo tutti non dimenticare, che l’ambiente dei social network non può divenire un ambito di impunita violazione di norme giuridiche e sociali in nome della libertà di espressione, del diritto di critica o della libertà del pensiero.

Pertanto nel caso di pubblicazione di post da parte di soggetti non appartenenti alla all’Ordine professionale dei Giornalisti o di pubblicisti va ricordato che, l’indebita pubblicazione di contenuti offensivi dell’altrui riservatezza e reputazione su un social network può procurare a carico del suo autore conseguenze afferenti all’ambito del diritto penale (si pensi alle fattispecie di diffamazione) o a quello del diritto civile, configurando in quest’ultimo caso fattispecie di responsabilità extracontrattuale (risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.)

Fonte: Agenda Digitale

Audizione informale, in videoconferenza, del Presidente del Garante per la protezione dei dati personali sull’uso delle nuove tecnologie e della rete per contrastare l’emergenza epidemiologica da Coronavirus

Commissioni IX (Trasporti, Poste e Telecomunicazioni) della Camera dei Deputati

(8 aprile 2020)

1. Diritti, deroghe, limiti

La gravissima emergenza che il Paese sta affrontando ha imposto l’adozione- con norme di vario rango- di misure limitative di molti diritti fondamentali, necessarie per contenere auspicabilmente, il numero dei contagi.

La protezione dei dati personali – fondamentale diritto “di libertà”, sancito dalla Carta di Nizza – non poteva fare, naturalmente, eccezione, benché le limitazioni sinora adottate siano nel complesso contenute.

Alcune deroghe al regime ordinario di gestione dei dati sono state previste sin dalle primissime ordinanze intervenute pochi giorni dopo la deliberazione dello stato di emergenza, con prevalente riferimento all’ambito di comunicazione dei dati sanitari.

L’art. 14 d.l. 14/2020 ha sostanzialmente replicato tale disposizione, elevandone la fonte e rimarcandone il carattere temporaneo, senza tuttavia allo stato attuale riferirsi a raccolte di dati particolarmente “innovative”.

Nuove e più invasive raccolte di dati potrebbero fondarsi su esigenze di sanità pubblica che -al pari del “soccorso di necessità”- costituiscono autonomi presupposti di liceità, in presenza di una previsione normativa conforme ai principi di necessità, proporzionalità, adeguatezza, nonché del rispetto del contenuto essenziale del diritto.

2. Mappe epidemiologiche e sorveglianza

Va valutata entro questa cornice l’ipotesi della raccolta dei dati sull’ubicazione o sull’interazione dei dispositivi mobili dei soggetti risultati positivi, con altri dispositivi, al fine di analizzare l’andamento epidemiologico o per ricostruire la catena dei contagi.

Anzitutto, dal momento che sono ipotizzabili misure molto diverse tra loro, si dovrebbe privilegiare un criterio di gradualità e dunque valutare se le misure meno invasive possano essere sufficienti a fini di prevenzione epidemiologica.

In tale prospettiva non pone particolari problemi l’acquisizione di trend, effettivamente anonimi, di mobilità. L’art. 9 della direttiva e-privacy legittima il trattamento, anche in assenza del consenso dell’interessato, dei dati relativi all’ ubicazione, purché anonimi.

Tale soluzione consente di realizzare, ad esempio, mappe descrittive dell’andamento dell’epidemia, utilissime a fini prognostici e statistici, meno a scopi diagnostici in senso proprio.

Per altro verso, l’uso di dati identificativi sull’ubicazione o sull’interazione con altri dispositivi può risultare funzionale a diversi scopi.

In ogni caso, esso richiede – anche ai sensi dell’art. 15 della direttiva e-privacy – una disposizione normativa sufficientemente dettagliata e contenente adeguate garanzie.

I vari utilizzi possibili di tali dati possono essere finalizzati, in via teorica (e ragionando nei termini assunti dal dibattito pubblico di queste settimane):

a) o alla verifica della posizione del soggetto sottoposto ad obbligo di permanenza domiciliare perché positivo, utilizzando dunque la geolocalizzazione del telefono (che si presuppone, ma non è detto, segua passo passo il soggetto) per accertare l’effettivo rispetto del divieto di allontanamento dal domicilio, oppure:

b) all’acquisizione, a ritroso, dei dati sull’interazione del soggetto poi risultato positivo con altri soggetti, per verificarne, nel periodo in cui aveva capacità virale, gli eventuali contatti desumibili tramite varie tecniche: celle telefoniche, gps, bluetooth.

Le due ipotesi differiscono nella finalità: elemento, questo, indubbiamente rilevante per la valutazione della complessiva legittimità del trattamento.

La prima ipotesi infatti, nell’utilizzare la localizzazione del telefono come fosse una sorta di braccialetto elettronico atipico, presuppone la sostituzione, con l’occhio elettronico, dei controlli “umani”, dando però per acquisito che chi decida di violare gli obblighi di permanenza domiciliare porti con sé il telefono, il che è evidentemente contro-intuitivo.

Tra le altre misure utilizzate a fini di verifica del rispetto degli obblighi di distanziamento sociale vi è il ricorso, da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, ai droni.

Anche tali strumenti vanno utilizzati nel rispetto del canone di proporzionalità, soprattutto in ragione delle loro potenzialità particolarmente invasive della riservatezza.

Se utilizzata dalle forze di polizia, non per segnalare “impersonali” assembramenti, ma per monitorare il rispetto puntuale degli obblighi di permanenza domiciliare, infatti, tale misura difficilmente potrà garantire il rispetto del canone di proporzionalità, potendo prestarsi a una raccolta assai ampia di dati personali.

Sarebbe auspicabile, sul punto, una precisazione normativa, considerando anche che la norma di riferimento richiama genericamente le (non del tutto sovrapponibili) esigenze di controllo del territorio per finalità di pubblica sicurezza, contrasto del terrorismo e del crimine organizzato (cfr. art. 5, c.3-sexies d.l, n. 7/2015, convertito, con modificazioni, dalla l. 43/2015, come novellato dal dl 113/2018, convertito con modificazioni dalla l. 132/2018).

3. Il contact tracing

Più complessa è la seconda ipotesi, relativa alla mappatura a ritroso dei contatti tenuti, nel periodo d’incubazione, da soggetti risultati contagiati. Tale ricostruzione dei contatti può avvenire, almeno astrattamente, attraverso l’incrocio di tipologie di dati diversi: quelli sulle transazioni commerciali, sulle celle telefoniche, quelli sull’interazione con altri dispositivi mobili desunti dal ricorso a tecnologie bluetooth.

Va premesso che ciascuna tipologia di questi dati ha, naturalmente, una diversa significatività a fini epidemiologici, tanto maggiore quanto più idonea a selezionare i contatti più rilevanti perché più ravvicinati e, dunque, maggiormente suscettibili di aver determinato, almeno potenzialmente, un contagio.

Come vedremo più avanti, la scelta della tipologia di dati più efficace incide anche sul complessivo giudizio di proporzionalità, in quanto la maggiore selettività riduce il perimetro di incidenza della misura al solo stretto necessario, con effetti socialmente apprezzabili in termini di tutela della salute, individuale e collettiva.

In termini generali, comunque, il fine perseguito da tale misura risulta particolarmente apprezzabile perché non già repressivo (come invece nel caso della sorveglianza del soggetto in quarantena obbligatoria mediante la sua geolocalizzazione), ma solidaristico.

Lo scopo perseguito coinciderebbe, infatti, con l’esigenza di sottoporre ad accertamenti quanti siano entrati potenzialmente in contatto con un soggetto risultato positivo al virus o, comunque, di adottare le misure utili a prevenire il contagio.

Si perseguirebbe, dunque, quella componente solidaristica del diritto alla salute quale interesse collettivo, valorizzata dalla giurisprudenza costituzionale sugli obblighi vaccinali.

L’utilizzo di tale tecnologia avrebbe, del resto, poche valide alternative ai fini della ricostruzione della catena epidemiologica.

La semplice intervista del paziente può essere, infatti, lacunosa o comunque scontare la mancata conoscenza di molti soggetti con i quali si possa essere entrati in contatto nei più vari contesti (in farmacia, al supermercato ecc.).

Un elemento di fragilità delle soluzioni basate sui dati acquisiti da telefono attiene, però, al suo presupporre che tutti si spostino con il telefono addosso. E se questo avviene quasi sistematicamente per le fasce più giovani della popolazione, non avviene altrettanto sicuramente per gli anziani, che dovrebbero invece essere i primi a dover essere contattati in caso di temuto contagio, per essere curati con la massima tempestività.

Le soluzioni “tecnologiche” sono, infatti, validissime alleate dell’azione di prevenzione epidemiologica ma necessitano, evidentemente, di misure complementari di diversa natura, idonee a superare i limiti imposti, tra le altre cose, dal divario digitale.

Tale considerazione, sui limiti intrinseci alle opzioni tecnologiche, ha un duplice ordine di implicazioni.

In primo luogo, la valutazione dell’efficacia attesa dalla misura non può prescindere da un’analisi inerente le azioni complementari e, dunque, la fase- che dovrebbe ragionevolmente conseguirne- dell’accertamento sanitario dei soggetti individuati, tramite data tracing, quali potenziali contagiati.

Si possono raccogliere, infatti, tutti i dati possibili sui potenziali portatori (sani o meno che siano), ma se poi non si hanno le risorse (e persino i reagenti!) per accertarne l’effettiva positività, non si va molto lontano.

In secondo luogo, la necessità di ricostruire la catena dei contagi mediante i dati di dispositivi elettronici rende problematica l’imposizione di un obbligo generalizzato di uso di tali sistemi. Ciò, infatti, presupporrebbe la possibilità (non solo economica ma anche cognitiva) di utilizzo di smartphone e di loro funzionalità che non sono, oggettivamente, a tutti accessibili.

Inoltre, un simile obbligo di utilizzo sarebbe difficilmente coercibile salvo ricorrere a un vero e proprio braccialetto elettronico.

Se anche si ritenesse, come pure si sta ipotizzando, di far attivare il bluetooth direttamente da una app, come imporre, infatti, di uscire di casa solo se ‘accompagnati’ dal proprio smartphone, tra l’altro abbastanza carico?

Queste considerazioni inducono a preferire il ricorso a sistemi fondati sulla volontaria adesione dei singoli che consentano il tracciamento della propria posizione. Tuttavia, per garantire la reale libertà (e quindi la validità) del consenso al trattamento dei dati, esso non dovrebbe risultare in alcun modo condizionato.

Pertanto, non potrebbe ritenersi effettivamente valido, perché indebitamente e inevitabilmente condizionato, il consenso prestato al trattamento dei dati acquisiti con tali sistemi, se prefigurato come presupposto necessario, ad esempio, per usufruire di determinati servizi o beni (si pensi al sistema cinese).

L’efficacia diagnostica di tale soluzione dipende, in ogni caso, dal grado di adesione che essa incontri tra i cittadini, in quanto la rilevazione potrebbe per definizione avvenire solo limitatamente alla parte della popolazione che consenta di “farsi tracciare”.

La percentuale minima per l’efficacia è stimata nell’ordine del 60%.

E se a Singapore tale soluzione ha visto l’adesione di pressoché tutta la popolazione, ciò sembra imputabile prevalentemente alla specifica cultura e al grado molto avanzato di innovazione digitale di quel Paese.

Ciò non esclude però che un’adeguata sensibilizzazione sull’opportunità di ricorrere a tale tecnica, anche solo a fini egoistici- ovvero per essere informati di essere stati potenzialmente e inconsapevolmente contagiati tramite un contatto con soggetti positivi- possa invece consentire un’ampia adesione dei cittadini.

In tal senso, quindi, la volontaria attivazione di una app funzionale alla raccolta dei dati sull’interazione dei dispositivi, ben potrebbe rappresentare il presupposto di uno schema normativo fondato su esigenze di sanità pubblica, con adeguate garanzie per gli interessati (art. 9, p.2, lett.i) Reg. (Ue) 2016/679).

La seconda fase del trattamento (quella, cioè, successiva alla rilevazione dei dati) consiste essenzialmente nella conservazione degli stessi, in vista del loro eventuale, successivo utilizzo per allertare i potenziali contagiati.

Tale opera di “personalizzazione” dovrebbe avvenire limitatamente ai soggetti risultati poi positivi e a coloro ai quali, con essi, siano entrati in contatto significativo, per il solo periodo di potenziale contagiosità.

Sotto il profilo dell’impatto sulla riservatezza, determinato dalla conservazione in sé dei dati, in vista del loro successivo utilizzo, è certamente preferibile la soluzione della registrazione del “diario dei contatti” sullo stesso dispositivo individuale nella disponibilità del soggetto. Si eviterebbe così la conservazione di dati personali in banche dati dei gestori, che riproporrebbe le criticità rilevate dalla giurisprudenza della Cgue sulla data retention.

I criteri di necessità, proporzionalità e minimizzazione rimarcati dalla giurisprudenza europea indicano, comunque, l’esigenza di contenere tali limitazioni della privacy nella misura strettamente necessaria a perseguire fini rilevanti, con il minor sacrificio possibile per gli interessati.

Seguendo questo criterio, dovremmo allora ritenere anzitutto preferibile la misura più selettiva, che garantisca cioè il minor ricorso possibile a dati identificativi, sia in fase di raccolta sia in fase di conservazione.

In tal senso, ai fini della raccolta, il bluetooth, restituendo dati su interazioni più strette di quelle individuabili in celle telefoniche assai più ampie, parrebbe migliore nel selezionare i possibili contagiati all’interno di un campione più attendibile perché, appunto, limitato ai contatti significativi (così parrebbero orientati Singapore e Germania).

In particolare, sarebbero apprezzabili quelle tecnologie che mantengono il diario dei contatti esclusivamente nella disponibilità dell’utente, sul suo dispositivo, ragionevolmente per il solo periodo massimo di potenziale incubazione.

Il soggetto che risultasse positivo dovrebbe fornire l’identificativo Imei del proprio dispositivo all’asl, che sarebbe poi tenuta a trasmetterlo al server centrale per consentirgli così di ricostruire, tramite un calcolo algoritmico, i contatti tenuti con altre persone le quali si siano, parimenti, avvalse dell’app blue tooth.

Queste ultime riceverebbero poi una segnalazione (nella forma di un alert sul sistema) di potenziale contagio, con l’invito a sottoporsi ad accertamenti che, naturalmente, sarà efficace nella misura in cui sia responsabilmente seguito.

In tal modo, il tracciamento sarebbe affidato a un flusso di dati pseudonimizzati, suscettibili di reidentificazione solo in caso di rilevata positività.

Anche in tali circostanze, comunque, la stessa comunicazione tra server centrale ed app dei potenziali contagiati avverrebbe senza consentirne la reidentificazione, così minimizzando l’impatto della misura sulla privacy individuale.

In alternativa all’alert intra-app, si potrebbe ipotizzare che sia direttamente l’asl ad avvisare e, quindi, sottoporre ad accertamento le persone le quali, dalle rilevazioni bluetooth, risultino essere entrate in contatto significativo con il soggetto positivo.

La conservazione dei dati di contatto, da parte del server, dovrebbe comunque limitarsi al tempo strettamente indispensabile alla rilevazione dei potenziali contagiati.

L’anamnesi rimessa al medico consentirebbe, poi, di realizzare quell’intervento umano sul processo algoritmico richiesto dal Regolamento 2016/679 per evitare l’esclusiva soggezione umana a decisioni automatizzate, correggendone anche, così, possibili distorsioni e inesattezze.

In ogni caso, è auspicabile che la complessa filiera del contact tracing possa  realizzarsi interamente in ambito pubblico.

Ove, tuttavia, ciò non fosse possibile e anche solo un segmento del trattamento dovesse essere affidato a soggetti privati, essi dovrebbero possedere idonei requisiti di affidabilità, trasparenza e controllabilità, rigorosamente asseverati.

Potrebbe infine essere utile prevedere specifici reati propri, suscettibili di realizzazione da parte di coloro che, potendo avere accesso ai dati per qualunque ragione anche operativa, li utilizzino per altre finalità.

La soluzione ipotizzata ridurrebbe, verosimilmente allo stretto necessario, la sua incidenza sulla riservatezza. Tuttavia, benché non massivo, il trattamento di dati personali comunque realizzato richiederebbe, auspicabilmente, una norma di rango primario, (anche un decreto-legge, che assicura la tempestività dell’intervento, pur non omettendo il sindacato parlamentare né quello successivo di costituzionalità, diversamente dalle ordinanze).

Ove non si procedesse a un intervento legislativo ad hoc, sarebbe opportuno quantomeno integrare l’art. 14 dl 14/20, anche con misure di garanzia da prevedersi eventualmente con fonte subordinata.

La norma avrebbe anche una rilevante funzione performativa, fornendo una cornice generale di regole e garanzie cui uniformarsi anche a livello locale. Si eviterebbero così le autonome iniziative, differenziate da zona a zona che- in quanto spesso scoordinate e poco verificabili – rischiano di indebolire l’efficacia complessiva della strategia di contrasto. Quest’esigenza di uniformità vale sia a livello interno che sovranazionale. E’, in questo senso, assolutamente condivisibile l’auspicio del Garante europeo per la protezione dei dati, in favore dell’adozione di un unico progetto di data tracing in ambito europeo.

Naturalmente, come prescritto dalla Consulta per le disposizioni emergenziali, è fondamentale l’efficacia temporalmente limitata della norma, da revocare non appena terminato lo stato di necessità o, comunque, ove la prassi ne dimostri la scarsa utilità (in tal senso, sarebbero opportuni controlli periodici).

Ed è essenziale sancire (con il presidio di sanzioni adeguate) l’obbligo di cancellazione dei dati decorso il periodo di potenziale utilizzo (salva la conservazione in forma aggregata o comunque anonima per soli fini statistici o di ricerca) e l’illiceità di qualsiasi riutilizzo dei dati per fini diversi da quelli di tracciamento dei contatti, nei termini suindicati.

Così circoscritto, il ricorso al contact tracing potrebbe anche concorrere all’eventuale formazione del “passaporto sanitario digitale”.

Ci riferiamo, in particolare, alle varie iniziative suscettibili di adozione nella fase di ripresa delle attività, per la valutazione del grado individuale di rischio epidemico.

Vanno studiate, dunque, modalità e ampiezza delle misure da adottare in vista della loro efficacia, gradualità e adeguatezza, senza preclusioni astratte o tantomeno ideologiche, ma anche senza improvvisazioni o velleitarie deleghe, alla sola tecnologia, di attività tanto necessarie quanto complesse.

La chiave è nella proporzionalità, lungimiranza e ragionevolezza dell’intervento, oltre che naturalmente nella sua temporaneità.

Il rischio che dobbiamo esorcizzare è quello dello scivolamento inconsapevole dal modello coreano a quello cinese, scambiando la rinuncia a ogni libertà per l’efficienza e la delega cieca all’algoritmo per la soluzione salvifica.

Fonte: Garante Privacy